di Luca Ruggero Jacovella (articolo elaborato da un mio intervento pubblicato su Conversomag per il servizio "Sapore di Siae")
L’argomento del
diritto d’autore è all’ordine del giorno, per via delle sempre più moderne
modalità di fruizione delle opere, della legislazione in divenire, tra Comunità
Europea e stati membri, di nuovi tipi di licenza e nuove società di collecting,
ecc… ma un aspetto, a mio avviso, è mancante all’interno del dibattito tra
addetti ai lavori: il pensiero epistemico-musicologico per cercare di definire
più appropriatamente cosa è l’opera creativa, cosa fa un performer, chi sono
gli autori, e in cosa dovrebbe cambiare, conseguentemente, la legge e/o, per
esempio, la nostra Siae.
Partendo proprio da
questo specifico focus sono contento di essere riuscito, nel 2014, insieme all’associazione
sindacale SOS MUSICISTI e ad ACEP (associazione dei piccoli autori ed editori),
a far abolire una iniqua maggiorazione tariffaria per la musica dal vivo che
considerava il numero dei musicisti un parametro attraverso il quale calcolare
il diritto d’autore. Va dato atto quindi che, almeno secondo questa mia
esperienza, la Siae ha saputo ascoltare un “nuovo” punto di vista, ed è stata
capace di cambiare in meglio.
Dunque, tornando al
tema di questo mia riflessione, desideravo mettere a confronto la legge 633 del1941 (l.d.a.) e lo Statuto della Siae approvato nel 2012.
La legge italiana
sul diritto d’autore, all’art. 2 c.2, enuncia in questo modo le opere dell’ingegno
tutelate:
“le OPERE e le composizioni
musicali, con o senza parole, le opere drammatico-musicali e le variazioni
musicali costituenti di per sé opera originale“.
Leggendo invece lo
Statuto della Siae all’art. 6 c.2, si trova:
“A) opere assegnate: composizioni sinfoniche e composizioni musicali di
vario genere, (…)”.
Salta agli occhi un
campo più ristretto rispetto a quanto concepito dalla legge nel 1941! Per
brevità posso dire che la Siae, nel proprio Statuto (quindi “a monte”),
riconosce solo, come opere da assegnare, le “composizioni”, ovvero gli “artefatti
compositivi” preparati e basati sul mezzo della scrittura, in regime di
preminenza del senso visivo, secondo una concezione culturale eurocentrica,
quindi parziale rispetto alla complessità dei fenomeni creativi. Da ciò ne
consegue poi una sistematica subordinazione della figura
dell’interprete/esecutore rispetto a quella dell’autore, e tutta una
concatenazione di norme e di sistemi economici poggiati su questa visione
estremamente parziale della poliedrica realtà artistica oggettiva.
Ma a onor di verità,
La legge sul diritto d’autore del 1941, che appone una “e” tra “OPERE” e
“COMPOSIZIONI”, concepisce di fatto la possibilità di altre forme espressive
oltre la “composizione”, e aggiunge anche “le variazioni musicali costituenti
di per sé opera originale”.
Per contro, nello
Statuto della Siae (e anche nel suo Regolamento Generale) non c’è menzione di
tutto l’altro mondo musicale creativo nel quale, prendendo in prestito il pensiero del filosofo Luigi Pareyson: “...quel fare che facendo inventa il modo di fare …”, nel
quale il “testo” non è, evidentemente, quello scritto, e l’opera non è soggetta
all’imperativo della “ripetibilità uniforme” occidentale di ascendenza
cartesiana (cit. V. Caporaletti 2005).
Sottigliezze? No. Si tratta di campi semantici diversi che in
musica possono significare mondi creativi che adottano medium formativi cogenti
opposti.
La Siae quindi, già
attraverso lo Statuto, rivela evidentemente l’ambito gnoseologico di
appartenenza, e ne fa il proprio paradigma applicativo nella musica.
La riflessione da
fare sarebbe però lunghissima …
la Siae e i performer di opere: si conoscono bene tra loro? |
Una ulteriore prova di quanto sto affermando?
Nel Regolamento Generale, art. 33 comma 4, è scritto che, in eccezione alla forma di deposito rituale delle opere su spartito, è consentito il deposito tramite registrazione sonora per la cd. "Musica Concreta". La "Musique concrète" fu una corrente sperimentale nata dalle teorie di Pierre Schaeffer, che combinava suoni d'ambiente e della natura ("oggetti sonori") attraverso l'uso del magnetofono, secondo una precisa "volontà compositiva"(1).
Questa corrente, iniziata alla fine degli anni '40, finì all'inizio degli anni '70. Perchè dunque menzionare, in un Regolamento dei nostri giorni, un genere sperimentale non più usato da ormai quaranta anni circa, e non citare invece il jazz, le cui improvvisazioni estemporanee e i cui valori sonori non si prestano ad una notazione tradizionale? La risposta sta proprio nella differenza tra "composizione" (concettualmente ben conosciuta dall'establishment culturale e dalla Siae), e "opera estemporanea" ... questa sconosciuta.
Facendo un'ulteriore ricerca sulla storia degli Statuti della Siae, ho potuto constatare come l'espressione "composizioni", in assenza della dicitura "opere e ...", sia presente anche nel Regio Decreto del 1942 che approvò lo Statuto dell'Ente Italiano per il Diritto d'Autore (E.I.D.A., denominazione che assunse la Siae durante il fascismo). Curioso è leggere come il re Vittorio Emanuele III approvò il suddetto Statuto "per grazie di Dio" e "di concerto col Ministro per l'Africa Italiana" e del "MinCulPop" (Ministero Cultura Popolare)... Insomma, il problema ha origini remote! Ad ogni modifica statutaria della Siae avvenuta negli anni, è stato fatto, evidentemente, un semplice copia-incolla di alcune frasi e locuzioni ...
Nel Regolamento Generale, art. 33 comma 4, è scritto che, in eccezione alla forma di deposito rituale delle opere su spartito, è consentito il deposito tramite registrazione sonora per la cd. "Musica Concreta". La "Musique concrète" fu una corrente sperimentale nata dalle teorie di Pierre Schaeffer, che combinava suoni d'ambiente e della natura ("oggetti sonori") attraverso l'uso del magnetofono, secondo una precisa "volontà compositiva"(1).
Questa corrente, iniziata alla fine degli anni '40, finì all'inizio degli anni '70. Perchè dunque menzionare, in un Regolamento dei nostri giorni, un genere sperimentale non più usato da ormai quaranta anni circa, e non citare invece il jazz, le cui improvvisazioni estemporanee e i cui valori sonori non si prestano ad una notazione tradizionale? La risposta sta proprio nella differenza tra "composizione" (concettualmente ben conosciuta dall'establishment culturale e dalla Siae), e "opera estemporanea" ... questa sconosciuta.
Facendo un'ulteriore ricerca sulla storia degli Statuti della Siae, ho potuto constatare come l'espressione "composizioni", in assenza della dicitura "opere e ...", sia presente anche nel Regio Decreto del 1942 che approvò lo Statuto dell'Ente Italiano per il Diritto d'Autore (E.I.D.A., denominazione che assunse la Siae durante il fascismo). Curioso è leggere come il re Vittorio Emanuele III approvò il suddetto Statuto "per grazie di Dio" e "di concerto col Ministro per l'Africa Italiana" e del "MinCulPop" (Ministero Cultura Popolare)... Insomma, il problema ha origini remote! Ad ogni modifica statutaria della Siae avvenuta negli anni, è stato fatto, evidentemente, un semplice copia-incolla di alcune frasi e locuzioni ...
Nota 1:“Noi abbiamo chiamato la
nostra musica concreta, poiché essa è costituita da elementi preesistenti,
presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica tradizionale.
Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una costruzione
diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l’aiuto,
divenuto impossibile, di una notazione musicale tradizionale”. Pierre Schaeffer
nel “Trattato degli oggetti musicali”, 1966
"Opera e Composizione nel diritto d'autore: trova le differenze" diLuca Ruggero Jacovella è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Complimenti per l'articolo. Uno spunto di riflessione interessante e molto vicino a quello che stiamo vivendo. Questo meccanismo di tutela della composizione - che "rivela evidentemente l’ambito gnoseologico di appartenenza, e ne fa il proprio paradigma applicativo nella musica" - spesso viene utilizzato dai più maliziosi per depositare opere inesistenti (di fatto) da cui però trarre proventi.
RispondiEliminaNaturalmente non costituisce il male maggiore...però, semplicemente, penso: perché una variazione artistica conta meno di un "quacheccosa" che non esiste?
Grazie per l'aggiornamento sulla questione!
"qualcheccosa"*
EliminaGrazie del contributo. Siamo, come al solito, nell'eterna battaglia (cognitiva) tra visibile e non visibile. Le "opere" (il virgolettato è d'obbligo) sostanzialmente inesistenti, pur esistono in qualche modo attraverso la grafia. Salendo un pò di livello, anche semplicissime melodie di poche battute, se gradite e se fortunate, possono produrre immensi capitali per diverse generazioni, mentre capolavori dell'estemporaneità, se pur fissati attraverso il mezzo fonografico ("codifica neoauratica" cit. Caporaletti), se non intellegibili attraverso la notazione e non opportunamente depositati, rimangono evanescenti (per le regole applicative del diritto d'autore" ... Siamo qui proprio per provare a ribaltare questo paradigma!
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